La navigazione sul Tevere nel Medio Evo e nell'età Moderna
di A. Zuppante
di A. Zuppante
La valle di un grande fiume e dei suoi affluenti rappresenta un sistema territoriale.
Se le acque nel tempo hanno trovato il passaggio più agevole per giungere tutte allo stesso posto è normale che alla “comunità idrica” segua una qualche forma di comunità umana.
Magari sarà una comunità limitata, che non raggiunge tutti gli angoli del bacino, formata in parte da etnie diverse, ma comunque una comunità sociale, basata su legami personali e mercantili e, più in generale, legami di comunicazione.
Questo aspetto concerne sì le vie terrestri che seguono i corsi d’acqua, ma riguarda molto più le vie della navigazione fluviale perché – con il Tevere come in altri casi – esse si trovano quasi sempre a passare al centro delle diversità: così, dove il fiume taglia, la navigazione ricuce.
Per fare un esempio pratico, quando una imbarcazione caricava le merci nel Porto dell’Olio, a Otricoli (oggi Provincia di Terni), insieme ai prodotti umbri finivano nella stiva anche le fascine da ardere della sponda “laziale”, perché ad ogni porto – come lo intendiamo oggi – corrispondeva anche un attraversamento con il traghetto spesso chiamato ugualmente “porto”, e di porti del secondo genere ve ne erano ben più che del primo.
Il mondo che ruotava intorno ai trasporti nel Tevere e, in tempi più lontani, nei suoi affluenti, toccava sensibilmente le popolazioni rivierasche ma si spingeva anche a coinvolgere direttamente nella navigazione numerosi soggetti meno vicini al fiume, di modo che le aree interessate fossero abbastanza estese.
Nel caso del Tevere la navigazione storicamente meglio conosciuta si limita alle epoche medievale e moderna e alla parte inferiore del percorso, da Orte alla foce. Varie fonti in età classica, quando l’organizzazione romana era più efficiente e i fondali più profondi, scrivono di barche che si spingevano sul Tevere almeno fino a Città di Castello e solcavano anche le acque di tutti i maggiori affluenti. Vestigia di attrezzature portuali antiche sono tornate alla luce a Baschi e a Orte sul Tevere e a Stifone (Narni) sul Nera.
Il Parco del Tevere in Umbria
Dalla fine dell’età classica – seppure la navigazione non possa essere mai cessata – le fonti storiche ricominciano a citare il traffico tiberino a Nord di Roma soltanto nel 994, quando su di un atto del monastero di Farfa compare un portus ad naves decurrendas nel territorio di Orte. Le abbazie romane titolari di grandi interessi nelle valli del Tevere e del Nera, e anche quella farfense e la corporazione dei barcaioli romani, la schola sandalariorum, erano in quel tempo i protagonisti dei trasporti fluviali e i proprietari delle strutture portuali, banchine, magazzini, diritti di transito.
Successivamente, nel Tardo Medioevo, con l’affermarsi dei regimi comunali, il controllo dei porti principali passò nelle mani delle comunità che ne ricavavano entrate fiscali e se ne servivano anche per scopi politici, come avvenne quando nel Duecento i Maglianesi concessero l’esenzione ai mercanti di Narni e a quelli di Viterbo.
Abbazia di Farfa
I trasporti sul Tevere hanno avuto un solo senso, con destinazione Roma, la quale riceveva per via fluviale ogni sorta di prodotti agricoli, materiali da costruzione e per riscaldamento, che si aggiungevano a quelli provenienti dal mare risalendo dalla foce. Trasporti di persone nei due sensi o trasporti di carichi in risalita da Roma sono soltanto delle eccezioni, tra le quali si ricordano il passaggio di molti marmi del duomo di Orvieto scaricati, a Orte o anche molto più vicino alla destinazione quando la portata delle acque lo permetteva.
Stesso itinerario fino a Orte, poi via terra, hanno percorso i marmi dell’intero chiostro romanico dell’abbazia di S. Croce di Sassovivo a Foligno nella prima metà del 200.
Abbazia di S. Croce di Sassovivo a Foligno
Le flottiglie erano composte da imbarcazioni di varia stazza che normalmente viaggiavano a gruppi di tre, di misura diversa per gestire i carichi con le variazioni dei fondali. I natanti maggiori erano i navicelli, lunghi fino a ventuno metri e provvisti di coperta e alberi, seguivano i barchettoni, fino a quindici metri, e le caratteristiche ciarmotte, poco più corte ma a chiglia piatta ed estremità molto rialzate. Erano tutti accompagnati da barchette di sette-otto metri per le operazioni di carico, scarico o trasbordo.
Solcavano infine le acque un gran numero di chiode (zattere), nella versione todina e maglianese, la prima doppia della seconda, che in genere consentivano soltanto il trasporto del legname con il quale erano costruite.
Il Tevere al porto della Legna di G. Vanvitelli - Da Delcampe.it
Gli equipaggi di questi convogli erano composti da figure ben definite: i provieri, responsabili del viaggio, i capipresa, corresponsabili, con il compito di assumere e dirigere gli uomini per il tiro nel viaggio di ritorno, e infine i manuali addetti ai remi e al carico e scarico. Nel Settecento, in un viaggio-tipo di due navicelli, s’incontravano un proviere e un capopresa ai timoni, tre uomini ai remi e uno sulla barchetta che fa la spola con i numerosi porti (tra Orte e Roma se ne contano fino a 38).
I tempi di percorrenza della discesa Orte-Roma non devono essere variati nei secoli e vengono indicati mediamente in tre giorni, se le soste per il carico lungo il percorso non erano numerose. Per la risalita delle imbarcazioni, generalmente scariche, s’impiegavano invece dai sei ai dodici giorni, ridotti nell’Ottocento quando vennero sperimentati prima i bufali (1805), già attivi dalla foce a Roma, e successivamente (1842) i rimorchiatori a vapore.
Il Porto di Ripetta - Foto Alessandro Specchi da www.romasegreta.it
Sono questi gli ultimi tentativi per modificare una tendenza in atto fin dal Seicento, che ha visto il fiume soffrire gravi carenze di manutenzione a fronte del maggiore innalzamento dei fondali. Lo sviluppo di Roma iniziato nel Cinquecento ha richiesto, per le costruzioni e il riscaldamento, il taglio di molti boschi nelle aree, per facilità di trasporto, vicine al Tevere e agli affluenti; quindi il maggior dilavamento dei rilievi ha moltiplicato e accelerato un fenomeno meglio gestito nei secoli precedenti.
Gravi ritardi inoltre ha sofferto la manutenzione delle numerose palizzate che trattenevano le sponde del fiume nei punti più franosi. e la conservazione della strada di alaggio, indispensabile per il tiro dei natanti. Quando, spazzati dalle piene, non si ricostruivano i ponticelli di legno che consentivano alla strada di tiro di superare i numerosi piccoli affluenti del Tevere, anche i ruscelli, i tiratori erano costretti in ogni stagione a entrare in acqua. Accadeva molto spesso, e la loro mortalità, e di conseguenza anche i compensi che chiedevano, erano molto alti.
Il trasporto del Monolite sul Tevere verso il Foro Italico
Tutto ciò ha fatto in modo che – dopo l’inaugurazione della prima ferrovia inglese (1825) – quando in tutta Europa si è cominciato a guardare alla strada ferrata come al futuro dei trasporti pubblici, anche lo Stato pontificio, nel giro di alcuni lustri, abbandonasse ogni iniziativa per il funzionamento della navigazione fluviale.
Pertanto è senza dubbio alla realizzazione della ferrovia pontificia Roma-Ancona (aperta fino a Corese nel 1865 e fino a Foligno l’anno successivo) che può essere imputata, nonostante altri motivi pregressi non favorevoli, la fine della via d’acqua tiberina.
Al di là del rimpianto per la grave perdita, forse evitabile, va riconosciuto che la strada ferrata si è fatta carico della funzione di omogeneizzazione sociale nel territorio svolta in precedenza dalla navigazione del Tevere, interessando percorsi parzialmente diversi e trasportando, anziché solo merci, soprattutto passeggeri.
Ma la nostalgia, che quel tipo di trasporto mercantile ci suscita, non cesserà mai.
A. Zuppante
Leggi anche: L'ultimo trasporto il monolite del Foro Italico (Il trasporto da Carrara e la navigazione sul Tevere fino a Roma)
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