"Vorrei avere il tuo coraggio, mollare tutto e andare via per mare". È la frase che sento ripetere più spesso da amici e conoscenti negli ultimi 6 anni.
Rispondo sempre che la loro frase sarebbe più corretta se sostituissero la parola "coraggio" con i termini "incoscienza" o "egoismo".
L'incoscienza di mollare tutto - lavoro, reddito, sicurezza, prospettive - quando non si sa cosa sarà domani, come saremo, come staremo, quanto vivremo a lungo.
L'egoismo di chi mette al primo posto se stesso, dimenticando spesso che non siamo soli al mondo, non lo siamo mai.
"Avessi un figlio, non lo avrei mai fatto", con questa frase sciolgo le ansie di tutti quelli che figli ne hanno e vedo tornare un sorriso laddove c'è stata per un attimo una sensazione di inadeguatezza e di invidia. Non lo dico per generosità, quantomeno non solo, è la pura e semplice verità.
Eppure anche io - senza lavoro, senza reddito, senza figli - metto ogni volta un piccolo dubbio nella grande certezza di partire. Quel dubbio si chiamamammaepapà, così tutto insieme come insieme sono loro da quando li conosco. Non tutti i genitori italiani vivrebbero così bene il nostro partire come fanno loro e in questo "loro" aggiungo anche la mamma di Giovanni. Ci seguono sulla cartina della Grecia, isola dopo isola, leggono questo blog e fino a fine settembre si astengono dal chiedere "quando tornate?" per poi ripeterlo ad ogni telefonata fino a novembre, quando torniamo effettivamente. Perché fino a fine settembre è estate e tutto ha un senso. Poi con l'autunno la lontananza diventa più difficile da digerire.
"Guarda che qui piove" mi dice la mamma ai primi giorni d'autunno quasi fosse un richiamo dell'infanzia "si fa sera, sali a casa che non hai nemmeno un golfino".
Solo che salire a casa venendo dall'altra parte dell'Egeo non è così rapido e veloce e di golfini qui a bordo ne ho in abbondanza.
E così da 6 anni, li saluto a fine primavera e li ritrovo che è quasi inverno. Non quest'anno però.
Papà sta poco bene, i fratelli fanno i turni nell'occuparsi di entrambi ma alle porte c'è "agosto-mese-di-ferie-per-chi-lavora-e-non-se-ne-va-6mesidico6-a-zonzo-per-i-mari" che chiede giustamente che anche io faccia una piccola parte del mio dovere.
Non si tratta solo di dovere, in realtà. A star lontani, le notizie sulla salute degli altri si amplificano e si confondono, ti viene voglia di andare a vedere di persona, di esserci, di tornare. E fai quello che non pensavi di essere capace di fare. Lasci la tua barca (la tua casa, la tua vita) prendi un aereo e torni a Roma.
Una volta deciso che il pit stop di P'acá y p'allá sarà a Evros Marina a Leros, nel porto più sicuro che io riesca a immaginare in Grecia, anche Giovanni decide di partire.
730 miglia ci separeranno per la prima volta dalla nostra barca: 730 miglia in linea d'aria, meglio dire 1.350 km. "Assicurare saldamente una barca agli ormeggi" conosce con noi l'apoteosi della maniacalità. Immaginate una mamma che non si è mai separata dal suo piccino, accompagnarlo al primo giorno di asilo e avrete una pallida idea di come mi sentivo io al momento di partire. E chi trova sconveniente il paragone tra barca e pargoletto, non me lo dica perché è forse una giusta osservazione che io riterrò comunque sempre irritante e sbagliata.
Faccio tre volte il percorso verso l'ufficio del marina per ricordare loro che noi partiamo e stiamo via, per dare loro tutti i numeri di telefono che abbiamo, per ricordargli la mia e-mail e poi dirgli "Ma mi telefoni, per carità, ché chissà se le mail arrivano". Poi gentilmente, l'addetta al marina mi dice "Signora, si guardi intorno, tutte le barche sul suo pontile sono sole, di solito sono sole per 11 mesi all'anno" e in sottotesto leggo "E nessun armatore fa tutte queste storie".
In più noi abbiamo Antonio, il nostro amico Antonio che da dodici anni vive qui e che le darà un'occhiata. Insomma Paquita è al sicuro, si può partire per questa nuova strana avventura.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto un aereo della Blue Express ci trasporta da Kos a Roma, dopo che un traghetto della Dodekanissos Seaways ci ha portato da Leros a Kos.
Stiamo entrambi con la faccia appiccicata ai finestrini, tentando di riconoscere, isola per isola, la Grecia che abbiamo navigato con il doppio handicap di vederla dall'alto e di notte. I nostri compagni di volo ci sentono declamare una dozzina di nomi seguiti da un punto interrogativo. Quel che sembra Paros lascia il posto a quel che sembra Amorgos e questo rende improbabile la cosa. La linea della costa si perde nella notte, i confini sono fatti solo di luci accese. Ciò che è continente può sembrare isola e viceversa. Quando arriviamo sopra al Ponte di Patrasso, l'unico punto su cui non v'è alcun dubbio, resisto dal desiderio di chiedere al comandante di fare un altro giro, magari poco poco più a sud.
Due ore dopo, in quest'assurdo modo veloce - troppo veloce - di spostarsi, siamo catapultati a Roma Fiumicino. Alle tre di notte del 15 agosto resta poco da immaginare su come raggiungere il centro della capitale. C'è il taxi, appunto.
Ancora sconvolti dal teletrasporto che abbiamo vissuto, percorriamo la città deserta in un silenzio e immobilismo irreale e surreale. Riapriamo una casa che non è più una casa ma un magazzino della barca e vorrei tanto sentire i passi dei condomini del piano di sopra. Siamo soli nel palazzo, la mattina dopo ci sentiremo soli nel quartiere. È una Roma stupenda, lasciata a se stessa, fatta di persiane chiuse e di cartelli "chiuso per ferie". Le strade sembrano enormi, le piazze non ne parliamo.
Da quel momento in poi, la mia sosta a Roma è fatta di mamma e papà, di una casa curata, con aria condizionata, di cibo sano e di gelato nel pomeriggio. Di visite molto frequenti al supermercato, l'unico aperto, perché quello che serve è sempre e solo per il giorno stesso, mai per il giorno dopo, benedetta mamma!
Giovanni va a S.Stefano per qualche giorno a trovare sua madre e a partecipare a una regata con il nipotino Giuseppe su un 4,20mt. "Che fatica le barche piccole…" dice, "avevo scordato come una barca sia un'esperienza muscolare prima di tutto".
Una mattina mi sveglio e trovo un messaggio di Giusy con una foto della mia barca a Leros "Paquita sta bene, siamo vicini di ormeggio con Shangri-La". Son cose che ti fanno sentire parte della grande famiglia dei marinai. Appena tornerò a Leros, dopo aver guardato Paquita solo un attimo vado a dare un'occhiata a Shangri La e scriverò a Giusy "Tutto ok, Shangri la è saldamente e orgogliosamente ormeggiata".
I giorni a Roma volano via, tra visite di amici e misurazioni collettive della pressione arteriosa, meglio di un torneo di burraco.
Riempio la casa dei miei e la loro vita della mia presenza, talmente tanto che sono sicura - non lo ammetteranno mai, ma ne sono sicura - avranno fatto un party liberatorio il giorno della nostra partenza.
Mi do da fare come fossi in barca, stilo elenchi di medicine, di cose da fare, di diete punitive. Regole e elenchi che non mi sono congeniali e che servono, me ne rendo conto, non tanto a far stare meglio loro quanto a far stare tranquilla me quando sarò lontana. Regole e elenchi a cui, sono certa, mio padre ha dato fuoco nel party liberatorio non appena ho messo piede sull'aereo di ritorno. Ora li immagino ad archiviare il sale iposodico che ho comprato loro e a tirare fuori dalla credenza quella sostanza simile così tanto più saporita.
Arriva il giorno di ripartire e si va, con il cuore che come al solito per metà resta a casa. Il volo di ritorno è di giorno e il nostro declamare isole su isole ha solo punti esclamativi. Passiamo su Cefalonia, Itaca, il Peloponneso, poi Kythnos, Paros, Koufonissi, Amorgos, Astipalea e l'aereo scende facendo una bella curva panoramica sulla virgola di pomice che è Giali. Andiamo a cena da Elias, così come il giorno in cui da Kos siamo partiti, tanto per regalare simmetria al nostro distacco. Una notte in un'anonima ma autentica pensioncina e il giorno dopo, il 30 agosto alle 13,45, saliamo a bordo di P'acá y p'allá e ritrovo così l'altra metà del mio cuore.
È bellissima, perfetta, neanche tanto impolverata. Neanche tanto arrabbiata. Vado agli uffici del Marina e dico "Sono tornata". "Non avevamo dubbi" mi rispondono, sorridendo.
Ci vuole tempo per imparare a lasciare la barca lontana. Ci vuole molto tempo e ci vogliono buone ragioni. Stavolta avevo un'ottima ragione, senza di essa non avrei potuto farlo.
So cosa ho guadagnato da questo pit stop, ossia giorni di mammaepapà e di salutare placarsi di quel senso di colpa che accompagna tutti quelli che vivono altrove.
E in realtà non abbiamo perso molto: abbiamo tolto i giorni meno autentici al nostro peregrinare, quelle due settimane d'agosto dove pure la quieta Grecia impazzisce e si stressa. Abbiamo eliminato, senza grande fatica, la Turchia dalla nostra rotta, mettendo una bella X su una parte di viaggio che in realtà non ci convinceva per nulla. E siamo tornati qui nel nostro viaggio interrotto col bellissimo dilemma del dove andare ora. Dilemma che resterà dilemma perché vogliamo, come sempre, vivere senza meta seguendo i capricci del vento, il più possibile restando a Est dove l'estate si allunga. Almeno finchè non arriverà quel segnale, la telefonata della mamma che dice "Guarda che qui piove…" che tirerà la prua di Paquita fino a farla puntare a Ovest in un lungo, lento, recalcitrante ritorno.
Di Francesca Carignani - Foto di Giovanni Rinaldi
Tratto dal blog di Francesca Carignani P'aca' y P'alla'
Francesca è autrice del libro: ROTTA VERSO L'EGEO Edizioni Il Frangente
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