Dopo la morte del piccolo, le orche di Genova vengono costantemente monitorate
di Claudia Facchinetti

di Claudia Facchinetti
Sono oltre due settimane che una famiglia di orche staziona fuori dal porto di Prà di Genova. Quindici giorni, per l’esattezza, durante i quali si è letto e sentito di tutto, dalle ipotesi più fantasiose alle critiche contro i ricercatori che, nella difficoltà della situazione, cercano di fare il loro lavoro.
Tutti, in questa circostanza, hanno voluto dire la loro sulle orche di Genova, improvvisamente “esperti”, pronti a raggiungere le orche addirittura in materassino, proponendo di utilizzare droni, idrofoni, tag satellitari, ecc. senza cognizione di causa e, perfino, di sottrarre il piccolo agonizzante alla madre nel tentativo disperato di salvarlo in una vasca.
«È vero – dice Sabina Airoldi dell’Istituto Tethys, che da trent’anni studia i cetacei in Mediterraneo – si sono dette molte inesattezze sulle orche di Prà, ma non voglio essere critica a riguardo, perché tutto questo interesse per la sorte degli animali lo reputo una dimostrazione di sensibilità verso di loro.
In molti vorrebbero davvero aiutare, ma la verità è che, purtroppo, non c’è molto che nessuno di noi possa fare. Le orche non sono costrette nel bacino, ma sono libere di allontanarsi quando vogliono e talvolta, come si è visto, lo fanno per diverse ore, presumibilmente per cacciare in mare aperto».
Finora, però, sono sempre tornate indietro.
«Il perché è un mistero, e anche i più importanti esperti di questa specie che abbiamo interpellato proprio in questi giorni a Barcellona, nel corso della Conferenza Mondiale sulla Scienza dei Mammiferi Marini, non hanno saputo darci una spiegazione certa sulla permanenza dell’unità familiare di orche nell’area» conclude Sabina Airoldi.
Cosa possiamo dire di questi animali?
«Grazie al confronto delle immagini delle pinne dorsali delle orche di Genova scattate dai ricercatori – risponde la biologa – sappiamo con certezza che non appartengono al gruppo studiato a Gibilterra, ma che presumibilmente sono gli stessi animali avvistati un paio di settimane prima del loro arrivo in Liguria a Cartagena, poi alle Baleari e, infine, a Carloforte. È probabile che siano arrivati da Gibilterra.
Attualmente, stiamo confrontando le immagini con molti studiosi di orche che potrebbero riconoscerle come originarie della loro area di studio, anche lontanissimo da qui».
Nel fermo immagine del video diffuso dalla Guardia Costiera si vede mamma orca che spinge il cadavere del piccolo e non lo abbandona.
La morte del piccolo
Anche sulla salute degli animali si è sentito di tutto, in particolare sulla tragica morte del piccolo ma, come assicurano i ricercatori di Ispra, Tethys, Università di Genova e Acquario di Genova – che operano in collaborazione con la Capitaneria di Porto e gli operatori di whale watching per raccogliere più dati possibili – non c’era niente che si potesse fare per salvarlo.
«La mortalità dei piccoli nelle orche è alta – dice Airoldi – e fin dal primo giorno è apparso evidente che il cucciolo fosse in difficoltà e magrissimo. Vedere la madre non rassegnarsi anche dopo la sua morte, continuando a trascinarlo con sé, è stato straziante, ma è una dimostrazione del forte legame che unisce i membri della famiglia. Si tratta, infatti, di una femmina matriarca con probabilmente suo figlio maschio adulto e due femmine o giovani maschi imparentati con lei (fino a 14 anni maschi e femmine sono uguali). Riuscire a recuperare il cadavere del cucciolo sarebbe molto utile per avere dati genetici certi su questi animali ma, purtroppo, il corpo dei piccoli, a differenza di quello degli adulti, tende ad affondare e deteriorarsi sul fondale, pertanto non sarà facile trovarlo».
Non c’è nessun “fratellino”
Non ci sarebbe mai stato, invece, il fantomatico secondo cucciolo ipotizzato da qualcuno. Lo stesso pescatore che lo ha dichiarato, infatti, avrebbe confermato che il gruppo era composto da cinque individui in tutto.
«Quello che ci preoccupa adesso – aggiunge la ricercatrice – è però la salute di una delle due femmine o giovani maschi che, rispetto agli altri individui, appare magro e in difficoltà. Potrebbe quindi essere questo il motivo che ancora trattiene il gruppo nel bacino, area che gli animali forse identificano come sicura».
Istituita una zona di precauzione
Attualmente, su proposta dello stesso Ministro Costa, la Capitaneria di porto ha emanato un’ordinanza che ha interdetto la navigazione, la sosta e l’attività subacquea nella “zona di precauzione”, ma alla lunga il traffico marittimo potrebbe diventare un pericolo e un disturbo per l’unità familiare.
«Non ci resta che continuare il monitoraggio – dice Airoldi –. La Capitaneria esce almeno due volte al giorno, mattina e pomeriggio, con a bordo il biologo Alessandro Verga, che ha raccolto per Tethys i dati comportamentali dal primo giorno a oggi, e a rotazione altri ricercatori dell’Acquario e dell’Università di Genova, mentre altre osservazioni vengono effettuate da terra o con un velivolo del corpo in forza Nucleo Aereo di Sarzana.
Da alcuni giorni i cetacei vengono anche monitorati acusticamente mediante idrofoni, sia calati in mare durante le uscite dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Genova, dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, dall’Università di Torino e dall’Acquario di Genova, sia 24 ore al giorno da Nauta Scientifice Tethys, attraverso un idrofono fissato sul fondale».
I dati acustici, fotografici e di comportamento saranno messi a confronto e a disposizione di tutta la comunità scientifica italiana e internazionale che potrebbe aiutare a dare maggiore risposte sul comportamento dei mammiferi marini.
Claudia Facchinetti
Articolo tratto da rivistanatura.com
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