Tutto cominciò circa 600.000 anni fa. L’ uomo ancora non esisteva, ma fortunatamente esisteva una forte attività sismica che diede origine al nostro attuale complesso dei Monti Vulsini.
Immaginate uno scenario apocalittico, con terremoti devastanti, ed esplosioni violentissime. Il magma che scorreva nelle viscere della terra aveva una temperatura di oltre 1000 gradi e premeva per venire in superficie originando così dei vulcani, i quali eruttando continuamente lapilli e lava, si svuotarono,sprofondando su se stessi, e riempiendo questa immensa voragine (la caldera), di acqua, dando così la vita al nostro Lago di Bolsena.
Estate 1958.
A 7 km a sud di Bolsena, in località “Punta del Gran Carro”, così chiamata per l’enorme e abbondante presenza di granchi, l’Ingegnere Minerario Dott. Alessandro Fioravanti, con famigliola al seguito, s’imbattè in un tracciato scavato da solchi, con presenze di frammenti ceramici disseminati tutt’intorno. Capì subito che si trattava di reperti antichi, ma antichi quanto?
La curiosità dell’esimio ingegnere, andò oltre la propria immaginazione, e facendo personalmente delle immersioni in apnea, si rese conto di aver fatto una scoperta sensazionale.
Attraverso le prime ricerche con la sua equipe, formata inizialmente da semplici appassionati di archeologia subacquea, si riscontrò che oltre a quel tracciato sommerso, erano presenti pali infissi sul fondale, frammenti ceramici, fibule, oggetti domestici e altro.
Seguendo quei solchi, a circa 150 mt dalla riva e a 5 mt di profondità, c’erano altri pali infissi nel fondale i quali fecero subito capire al Fioravanti che si trattava di un enorme villaggio palafitticolo Villanoviano(così denominato in quanto a “Villanova” in provincia di Bologna vennero trovati i resti di una necropoli dell’età del ferro). Da quel momento in poi, si susseguirono dei ritrovamenti di eccezionale valenza archeologica e storica, che l’ingegner Fioravanti, ha portato a conoscenza del mondo intero. Vediamo come.
Il villaggio Villanoviano del “ Gran Carro”, ha un’ area che si estende per circa 7 ettari , ubicato a metà della costa del lago, come abbiamo visto, si tratta di un sito archeologico sommerso di epoca Villanoviana pre- Etrusca, dove in origine questo insediamento era abitato in prossimità della riva e successivamente per l’innalzamento del livello delle acque, fù spostato su palafitte. Dai reperti trovati nell’area in questione, si è riscontrato che gli abitanti praticassero ogni tipo di attività che ne garantiva la sopravvivenza e il benessere comune, dando già l’idea di come fosse organizzata una piccola città.
Nel 1960, la Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale, autorizza ad eseguire i primi rilevamenti topografici dei fondali circostanti il “Gran Carro”, fino a 10 mt. di profondità, dove frammenti dei pali, vengono sottoposti ad accertamenti chimici.
L’annuncio pubblico del ritrovamento venne fatto nel 1962 ad Orvieto, al convegno sugli studi Etruschi ed Italici, dove venne presentata per l’occasione anche una pubblicazione.
Nel 1965, si realizza una documentazione fotografica dettagliata dell’area interessata, e il Soprintendente dell’epoca dott. Mario Moretti, autorizza l’intervento dei sub della Pennsylvania University di Philadelphia (USA), per rimuovere i reperti più importanti,sottraendoli dalla portata dei malintenzionati, che potevano servirsene per traffici clandestini.
Da questo momento in poi, le tecniche e le attrezzature per i rilievi, si affidano all’alta tecnologia, adottando le più sofisticate metodologie di ricerca; si eseguono scavi stratigrafici dei sedimenti a mano e con sorbone, carotaggi, ( tecnica di campionamento per ricerche minerarie nel sottosuolo con perforazioni di forma cilindrica), per la complessità dello scavo e del fondale reso torbido dalla presenza di alghe e limo, la Technisub di Genova mette a disposizione un elettro –compressore per la ricarica delle bombole. Tutti i reperti aspirati dalle sorbone, vengono raccolti in sacchetti di plastica ed inviati agli Istituti di Geochimica, Paleobotanica e Paleontologia dell’Università di Roma.
Nel 1974, la scoperta del ritrovamento del cranio di un bue, per merito del ricercatore subacqueo Massimo Lozzi , e più tardi nel 1989, la scoperta in prossimità dell’isola Bisentina di 2 piroghe monoxile, ( ricavate cioè da un unico tronco di albero), la prima della lunghezza di circa 9 mt, e l’altra di 13, confermano attività di pesca dei Villanoviani.
Una di esse attualmente è conservata a Capodimonte sotto trattamento di mantenimento, e l’altra, giace ancora sotto il fondale protetta da uno scudo d’acciaio in attesa di “sistemazione”.
Dal 1960 al 2000, sono stati riportati alla luce, circa 4000 reperti; tra manufatti per le attività domestiche( ziri, olle, scodelle, tazze vasi, brocche) a quelli per le attività artigianali e per la pesca.
Da annoverare che, nel 1977, lo Stato Maggiore dell’Esercito, con il C.A.L.E( Centro Addestramento Esercito Leggero) di Viterbo, concede all’ingegner Fioravanti, un elicottero per un monitoraggio aereo dell’area archeologica, collabora anche il C.I.R.S.S (Centro Italiano Ricerche Studi Subacquei),e dopo 4 giorni di rilievi fotografici, viene localizzata la strada che metteva in collegamento l’isola Martana alla terra ferma, nonché con l’ausilio di un paracadute ascensionale, si è potuta riscontrare la presenza di una struttura portuale tra Monte Bisenzo e Punta San Bernardino, con una concentrazione di blocchi disposti a “tenaglia” verso il largo.
Il 3 Settembre 2000, scatta “l’Operazione Amalasunta”(*). Partecipò a quell’evento, la rivista “Metal Detector”,“ Il Gruppo Archeologico Romano sez. Fanum Voltumnae” di Montefiascone appartenente ai G.A.I.(Gruppi Archeologici d’Italia), la sezione subacquea di Montefiascone, guidata dal ricercatore Massimo Lozzi, e la sottoscritta, dove in quell’occasione, ebbe la fortuna di conoscere l’Ingegnere, in qualità di collaboratore per un giornale locale, segnalando l’avvenimento in questione, dove si è trovata la strada che collegava l’isola Martana con la spiaggia di Kornos (Marta).
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