Olymbos. La caduta degli dei
di Francesca Carignani - Foto di Giovanni Rinaldi
di Francesca Carignani - Foto di Giovanni Rinaldi
Una certa ritrosia sospettosa ci teneva lontano da Olymbos. "Sarebbe bello ritornarci", dicevamo tra noi sapendo che, con un 40 nodi standard di Karpathos, lasciare la barca in rada o in porto per una giornata intera sarebbe stato da incoscienti o comunque non da noi.
In mare si fanno tante rinunce di terra. Restano sempre dietro di noi, sacrifici di scoperte o di riscoperte perché prima di tutto c'è lei: la barca, il suo benessere, la sua sicurezza.
Questa volta però, dietro al sacrificio, c'era anche un certo sapore di sollievo: il piccolo villaggio di Olymbos, nascosto nel cuore della montagna di Karpathos, non poteva aver beneficiato dell'immutabilità ellenica, qualcosa, necessariamente, doveva essere cambiato.
Olymbos nel 1990
Arrivammo a Olymbos 24 anni fa, facendo 50 chilometri di strada su una moto enduro, 25 dei quali su terra rocciosa e accidentata. Ad ogni tornante, rischiavamo di cadere giù schiacciati da una raffica a 50 nodi. Man mano che salivamo in cima, venivamo avvolti da una nebbia fitta e da nuvole grigie che avvolgevano il monte.
La conquista di questo piccolo villaggio aveva, per noi, il sapore della fatica e dell'impresa e fu tutto interamente ripagato. Giungemmo a Olymbos nel bel mezzo della festa di ferragosto.
Olymbos nel 1990
Camminando per i vicoli diretti al centro, sentivamo musica e litanie di voci in preghiera, la piccola piazza si aprì a noi in un turbinio di colori: erano i vestiti e i colori del giorno di festa.
Il pope cantava messa e i fedeli pregavano. Le donne portavano sulle loro vesti nere, guarnite di colori vivaci, tutti i gioielli che avevano. Noi, come due formiche intruse, con i nostri calzoncini e magliette consumati, eravamo una nota stridente in un piatto pregiato.
Ci accolsero con sorrisi cauti e con blanda curiosità: i turisti, ne avevano già visti senz'altro, ma pochi ogni anno. Qualche avventuroso che si inerpicava quassù a vedere com'era la vita in un tempo che non avevano vissuto. Com'era la vita in un luogo dove il tempo si era orgogliosamente fermato. Era il 1990, non gli anni 60.
La Grecia viveva già di turismo da quarant'anni e ci stava lentamente crescendo insieme, in una complicità lenta e rispettosa di cui ancora oggi, quasi dovunque, vediamo i frutti.
Olymbos nel 1990
Olymbos no. Separata dal resto dell'isola e dal resto del mondo da un vento assassino e dalla mancanza di strade, Olymbos restava lì, con la sua gente, isolata nell'isola, arrampicata su una montagna, guardata a vista dal meltemi.
Stacco. Oggi. Mentre il meltemi soffia a oltre 40 nodi e ci tiene impegnati in un tango argentino sulla splendida costa nord est dell'isola, le previsioni anticipano una stanchezza degli elementi. Il fido sito meteo Poseidon, il più attendibile in Egeo, sentenzia che dalle 3 di notte arriverà una tregua e finché dura la previsione, durerà una calma di vento che sembra fatta apposta per noi. Solo per noi, visto che qui non si avventura nessuno.
Ecco, quindi, che il miraggio minaccioso di Olymbos diventa realtà. Lasciata la barca nella sicura darsena di Karpathos, prendiamo una macchina e andiamo ad Olymbos.
La strada asfaltata che porta oggi a Olymbos
"Non serve un fuoristrada" ci dice Francesca dell'autonoleggio Gatoulis, figlia di un milanese rifugiato a Karpathos durante la II Guerra Mondiale e salvato da una famiglia locale dalle torture dei nazisti, "la strada per Olymbos è tutta asfaltata".
Voglia di annullare tutto e fuggire via.
Ma il magnete è più forte, andiamo a vedere. Mettiamo in atto piccoli accorgimenti per attutire di molto lo shock e giriamo per l'isola programmando di arrivare a Olymbos solo nel pomeriggio, quando i pullman turistici dovrebbero essere andati via.
Il bazaar nei vicoli di Olymbos
Continuiamo a ripeterci l'un l'altro "sarà molto cambiata" mentre l'asfalto corre sotto le ruote e tentiamo di ricordare la curva della strada sterrata di allora dove rischiammo di più.
Scendiamo dalla macchina e troviamo la ferale conferma.
Il turismo è arrivato e, come in tutti i posti che gli hanno resistito 50 anni, il suo arrivo è stato più spietato, più violento, più distruttivo. Nei vicoli di Olymbos è sorto un ordinato e colorato bazar.
Le vecchie in abiti tradizionali (20 anni fa erano solo abiti della festa, oggi sono "abiti tradizionali") sono state piazzate su uno scalino lì fuori a far finta di ricamare. Moderne civette di un prodotto che è già morto prima ancora di nascere. "Nonna sta' qui, e appena vedi un turista vendigli qualcosa, dai che c'è l'ADSL da mettere". E loro lì, piegate a questa nuova vita che vuol dire benessere ma che vuol dire la fine e queste neanche se ne accorgono.
Il copione è sempre lo stesso, fatto di quattro battute "Italiani?-ciao,italiani, come stai?- Vieni dentro, guarda tutto - Sconti speciali per italiani", dove già alla terza battuta leggi sincera la delusione muta di un "Ma non compri niente? neanche un magnete da frigo?" che resta negli occhi e non affiora alle labbra perché son pur sempre greche, grazie al cielo, non turche…
L'orrore del menu fotografato
No, non compro niente, vi darei fuoco vi darei, altro che comprare. Resisto a stento a un attacco di morettiana memoria e alla voglia di prenderla per la camicetta ricamata e urlarle "ma che diavolo state facendo? Siete pazzi?"
Ma non faccio a tempo, l'orrore prosegue, la nonna successiva, sull'uscio della sua taverna, indica il cartellone con le foto dei piatti, coperto da quell'unta plastica protettiva e già mi chiama "vieni, caffè espresso, spaghetti, roof garden". (Roof Garden?????? Oddio, ma come parli???)
Vorrei ucciderle, una dopo l'altra.
Poi penso a queste povere vecchie, assoldate alle più becere leggi del marketing negli ultimi anni della loro vita. Costrette ad ammiccare al turista come fossero zoccole di 20 anni.
Guardo gli stracci appesi ai loro bazar improvvisati, così uguali a ciò che trovi sul lungomare di Ostia con solo qualche ipocrita citazione locale ma probabilmente realizzata a Taiwan.
Olymbos
"È colpa della strada" dico io. "È colpa nostra" dice Giovanni, facendo riferimento a se stesso e ai suoi colleghi fotografi che hanno pubblicato servizi sulle riviste di viaggio, portando questi piccoli gioielli di mondo nelle case di ognuno e nei voraci occhi dei nuovi "viaggiatori tutto incluso".
L'asfalto e la comunicazione, sì, sono queste le cose che fanno perdere l'identità ai luoghi, che distruggono i popoli, che annientano tutto, che rendono tutto uguale.
Se becco una vecchia che si fa un selfie, giuro, la sbrano.
Arriviamo ai mulini che già erano vecchi e malandati, ma almeno 3 o 4 erano funzionanti.
Il mulino in funzione nel 1990
Ricordo la vecchia che scaricava il grano da un mulo, mentre le pale di legno tarlate con la tela consunta vorticavano e facevano lavorare la macina all'interno del cubicolo di pietra. Mi sorrise senza denti e mi offrì dalle sue mani sporche una pita col miele locale.
All'epoca pesavo 40 chili e non era affatto raro che mi offrissero da mangiare. E noi, sempre affamati perché un pasto in meno era un giorno di viaggio o un biglietto di traghetto in più, accettavamo volentieri e il sapore di quella pita, lo sento in bocca ancora oggi.
Resti delle pale eoliche
Oggi. Oggi che i mulini sono in macerie, ridotti a magazzino o a discarica. Quel che resta delle pale di legno è qualche misero pezzo a terra. Accanto, un vecchio tubo catodico e un'antenna tv.
Uno solo di questi mulini è restaurato, talmente bene da far venire voglia di cercare l'etichetta di Uno Più. Il proprietario ne ha fatto un negozio di vendita di miele, deve aver avuto qualche parente in un villaggio più evoluto che gli ha spiegato tecniche più attuali di marketing del turismo.
L'interno di un mulino, oggi
Accanto al mulino in rovina della vecchia signora della pita, scorgo un cartello "Natura 2000". Ecco, sono arrivati e lo hanno definito un luogo protetto. Questa è la vera colpa, questo è sempre l'inizio della fine. Quando qualcosa viene definito come patrimonio dell'Umanità, ecco che l'Umanità lo divora.
Tornando sui nostri passi, entriamo nell'unico locale dal quale non esce qualcuno a chiamarci: è una semplice pasticceria, niente foto a colori, niente insegne plurilingue. C'è una ragazza sui 30 anni che ci spiega da dove viene il miele e non insiste per vendercelo.
Lo compriamo e ci fermiamo per un caffè nel terrazzino di questo piccolo angolino intatto di Olymbos. Sul balcone stretto con la balaustra di legno, vediamo un piccolo scorcio del villaggio da cui non si percepisce il cambiamento. Riduciamo l'angolo di visuale e, come spesso accade, la vista migliora.
Olymbos
Facciamo pace con Olymbos, tra un caffè e un loukumade.
Mentre torno alla macchina, mi accorgo di aver esagerato e sorrido di me stessa. Penso a come racconterei questo luogo se lo avessi scoperto oggi e non 24 anni fa.
"Una perla ben conservata nel cuore di Karpathos, dove il tempo viaggia più lentamente, dove il meltemi tiene a distanza il turismo di massa e la montagna protegge dal mondo".
Sì, più o meno lo descriverei così. Perché è solo questo il problema: la differenza tra ciò che era e ciò che è.
Il mulino restaurato e adibito a negozio
Ed è doloroso anche immaginare ciò che sarà, quando con un colpo di coda si renderanno conto che stanno consumando una fortuna in pochi anni, quando qualcuno gli dirà che vanno restaurati i mulini, che va riportato tutto com'era con le logiche deroghe per la comodità del turista, dio unico e assoluto.
Allora tutti i mulini saranno "Uno Più", le vecchie saranno riportate a lavorare all'interno e a regalare le pita a qualche ragazzina magra, i bazar avranno delle regole e se i magneti per il frigorifero vengono fatti a taiwan, sarà meglio toglierci le etichette.
Sarà tutto finto, ma bello. E in fotografia tra il vero e il finto non c'è poi differenza.
Di Francesca Carignani - Foto di Giovanni Rinaldi
Tratto dal blog di Francesca Carignani P'aca' y P'alla'
Francesca è autrice del libro: ROTTA VERSO L'EGEO Edizioni Il Frangente
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