Storie di mare 2/ Navigando tra il Golfo Persico e l’Atlantico (via Suez)
di Nicola Silenti

di Nicola Silenti
Tornai a Procida con la mia prima esperienza di mare appena conclusa. Era il 14 marzo del 1958. Alle spalle lasciavo tre mesi intensi a bordo della M/N “Lucrino” e nel cuore portavo la consapevolezza che il mare non era più un sogno da accarezzare tra i banchi dell’istituto nautico, ma una realtà viva, aspra, esigente.
L’isola mi accolse con il suo abbraccio familiare. Le giornate si allungavano e l’estate sembrava avvicinarsi con passo lento ma inesorabile. In quei mesi di attesa sentivo crescere dentro di me un fremito di impazienza: il desiderio di ripartire, di tornare a bordo, di proseguire quel cammino che avevo appena iniziato.
Il 16 luglio 1958 arrivò la nuova opportunità con imbarco immediato sulla S/S”Tidewater”, una petroliera di bandiera liberiana di 21.393 tonnellate di stazza netta ,della Hemisphere Trasportation Corporation –in effetti della Getty Oil Company- ferma a La Spezia per cambio equipaggio. Ricordo una mattina luminosa quando salii per la prima volta sulla nave. Il nome rimbombava nei miei pensieri con un’eco straniera, quasi come un richiamo d’oltreoceano.
La sagoma della nave, possente e affusolata, tagliava l’orizzonte del porto come una cattedrale d’acciaio. Salendo la passerella, avvertii subito che quella non era una nave come le altre. Era una superpetroliera, una delle punte di diamante dell’impero della Getty Oil Company. Un universo a sé stante, dove ogni valvola, ogni tubo, ogni corridoio sembrava rispondere a un ordine silenzioso e rigoroso.
Una nave imponente, moderna, gestita secondo criteri organizzativi ben diversi da quelli cui ero abituato. L’impatto fu forte. Non solo per la struttura della nave stessa e per la sua tecnologia, ma soprattutto per la mentalità. Tutto appariva più ordinato, più efficiente ,più rigido. Già salendo la passerella, sentii il profumo d’acciaio e nafta che presto sarebbe diventato parte di me. Ero di nuovo all’inizio. Ma questa volta con un po’ più di consapevolezza e meno ingenuità.
A bordo trovai un equipaggio ben rodato, una routine serrata, una disciplina quasi militare. Non c’era tempo per incertezze: si imparava facendo, osservando, agendo. Era un mondo nuovo per me ed io, giovane ufficiale, iniziavo a comprendere cosa significasse davvero essere uomo di mare. Mi accorsi subito che a bordo, la vita seguiva ritmi ferrei. Nulla era lasciato al caso. I turni di guardia, la manutenzione, i controlli, ogni azione era scandita da regole precise, e la disciplina regnava sovrana. Ma non era una disciplina ostentata: era quella degli uomini che sanno di dover trasportare una materia viva, infiammabile, e che ogni errore può costare caro.
La nave lasciò la Spezia il 22 luglio1958 alla volta di Mina Saud, nel Kuwait, carica solo di tempo e attese, destinata a riempirsi del petrolio arabo che ci avrebbe spinti attraverso mezzo mondo. Passammo per lo Stretto di Messina, il cuore stretto tra due terre, e poi Port Said, un nome che sembrava già esotico solo a pronunciarlo, e che per noi significava l’ingresso nel cuore del mondo orientale. Da giovane navigante, affacciato sulla murata della nave, guardavo la città con la curiosità di chi scopre per la prima volta l’altra faccia del Mediterraneo.
Port Said era polvere, voci, mercanti, odori forti di spezie. I venditori salivano a bordo con mercanzie improbabili, tappeti, cinture, pugnali da bazar. Tutto era un frastuono allegro e disordinato, ma negli occhi degli uomini c’era una fame antica. Capii, allora, che il prossimo passaggio del canale di Suez non sarebbe stato solo un passaggio d’acqua, ma una soglia tra due mondi: da un lato il vecchio continente, dall’altro un Oriente arabo e misterioso che cominciava lì, tra le lamiere rugginose dei moli e i canti dei marinai egiziani.
Il Canale di Suez si attraversava a velocità lenta, sotto la guida dei piloti egiziani, con gli ufficiali di guardia tesi, vigili. A sinistra e a dritta scorrevano paesaggi lunari: sabbia, palme, accampamenti, villaggi fatti di baracche e silenzio. Ma nei miei occhi di ventenne si fissava qualcosa di più profondo: il senso di stare attraversando non solo un canale, ma la storia stessa.
Col tempo, quelle immagini non si sono sbiadite. Anzi, sono diventate memoria viva, tanto che anni dopo, con la maturità e la distanza del tempo, ho sentito il bisogno di raccontarle in un articolo pubblicato suDestra.it il 1° luglio 2021, dal titolo:“Passaggio verso le Indie e avamposto della memoria. Ricordi del Canale di Suez”.
In quelle righe ho cercato di restituire non solo i dati e i luoghi, ma le sensazioni, le impressioni di un giovane uomo di mare alle prese con un paesaggio che sapeva di leggenda e di futuro. Il canale, allora come oggi, resta una cerniera di civiltà, un nodo strategico e simbolico, dove le navi scorrono ma i ricordi restano.
L’attraversamento del Canale di Suez fu un momento solenne, quasi mistico: sembrava di navigare su un filo d’acqua teso tra due epoche. Le sabbie del deserto ci scorrevano accanto immobili e antiche, mentre la nave avanzava, giungendo alle ore 17.46 del 29 luglio 1958 al traverso di Port Tewfik (Suez), come risulta a pagina 9 del LogBook della nave , annotazione importante per me per dare atto di quella navigazione “fuori dagli stretti” necessaria per la registrazione del titolo professionale marittimo.
Dopo l’uscita dal Canale di Suez, la nave scivolava nelle acque del Mar Rosso, strette e bollenti, tra coste montuose e desertiche, mute come sentinelle. Era una traversata che un giovane navigante come me non avrebbe dimenticato facilmente. Il sole batteva implacabile sulle lamiere del ponte, l’aria vibrava di calore, e il vento — quando c’era — sembrava un alito d’oriente. Quei mari lontani, così diversi dal nostro Mediterraneo, portavano impressi i segni della storia: rotte millenarie percorse da fenici, romani, mercanti arabi, esploratori e pellegrini. Ogni miglio sembrava raccontare qualcosa, anche se taceva.
La notte, poi, era magica: stelle bassissime, aria immobile, silenzio assoluto. Sul ponte di comando, al mio turno di guardia, mi sorprendevo a pensare quanto il mare sapesse essere maestoso e solenne anche senza onde, anche senza parole.
L’arrivo a Mina Saud, in rada, davanti ai terminal petroliferi del Kuwait, era come la fine di un pellegrinaggio moderno. Un altro mondo. Un altro tempo. E io, giovane ufficiale di coperta, lì a viverlo con occhi pieni di stupore e rispetto.
Le operazioni di caricazione cominciarono quasi subito dopo l’arrivo sotto il controllo attento degli uomini arabi e dei nostri ufficiali: greggio, denso e nero, l’oro del secolo. Era il battito dell’economia moderna.
Durante la sosta per le operazioni di carico, il tempo sembrava rallentare. Il nostro passatempo era pescare, lì dalla murata, con lenze improvvisate, sorrisi larghi e una pazienza antica. Il mare era pieno di pesci, quasi volesse offrirci una tregua generosa prima della prossima traversata.
Alcuni li cucinavamo a bordo, dividendoli tra noi per un pasto diverso dal solito. Altri li regalavamo agli operatori arabi che salivano a bordo per il carico. Accettavano volentieri il dono, ma si scoprì presto che la vera delizia per loro erano i polli della nostra cambusa, che consideravano un’autentica prelibatezza.
In quel semplice scambio di cibo — tra pesce e pollame — si rivelava una fraterna quotidianità, fatta di rispetto, curiosità e piccoli gesti. Piccole storie di bordo, che oggi restano vive come allora.
Lasciata la rada di Mina Saud, la nave si rimise in viaggio, carica fino all’orlo del suo prezioso carico di greggio. Ma questa volta la rotta non ci riportava verso il Mediterraneo. La destinazione era Delaware City, sulla costa orientale degli Stati Uniti.
Il pescaggio eccessivo, dovuto al carico completo, rendeva impossibile il rientro passando dal Canale di Suez. Non restava che affrontare la grande circumnavigazione dell’Africa, passando per il leggendario Capo di Buona Speranza. Un tragitto lungo, solenne, che metteva alla prova la tenuta della nave e la resistenza degli uomini.
Dopo il Mar Arabico e l’Oceano Indiano, giungemmo nella zona dei grandi silenzi. Era l’oceano a dominare. La nave sembrava piccola, un punto nero in un bluinfinito. Si viveva sospesi tra cielo e mare, in turni regolari ma dentro un tempo che pareva immobile.
Ogni ufficiale, ogni marinaio, portava con sé la sua personale solitudine, ma anche un senso profondo di essere parte di qualcosa di antico e indissolubile: la grande avventura del mare. La routine della navigazione oceanica, scandita dai turni di guardia e dal ritmo monotono delle onde, era interrotta soltanto dai necessari calcoli astronomici. All’alba e al tramonto, con il sestante in mano e lo sguardo rivolto al cielo, il Primo Ufficiale rilevava le altezze delle stelle per determinare la posizione della nave. Alle dieci del mattino e poi a mezzogiorno, era invece il sole a guidarci, con il calcolo dell’altezza meridiana.
Erano momenti di silenziosa concentrazione, in cui il cielo dialogava con il mare attraverso le mani esperte e lo sguardo attento del navigante.
Il momento più atteso fu il passaggio dell’equatore.
Per un giovane navigante come me, quella linea invisibile rappresentava un confine simbolico: dal Mediterraneo al grande Sud del mondo. E la tradizione marinaresca non perdonava: chi lo attraversava per la prima volta veniva “iniziato” con riti goliardici, tra secchiate d’acqua, battesimi improvvisati e il mitico certificato firmato da Re Nettuno in persona.
Si rideva, si scherzava, si celebrava una fratellanza che il mare rendeva sacra. Eppure, in quell’euforia, sentivo anche una strana malinconia: un senso di distanza da casa, ma anche l’orgoglio di appartenere al mondo intero.
Quando infine avvistammo le coste dell’Africa meridionale, la rotta virò decisa verso la destinazione. Il Capo di Buona Speranza, che nei secoli aveva generato timore a tanti velieri, fu attraversato con reverenza.
Le onde alte, il cielo plumbeo, il vento teso: tutto sembrava confermare la fama di quel tratto di mare. Ma la nostra Tidewater procedeva sicura, con la sua prua imponente che apriva la via verso l’Atlantico.
Giorni e notti si susseguivano uguali, finché finalmente le luci dell’America non apparvero all’orizzonte. A Delaware City, tra rimorchiatori e sirene portuali, completammo lo scarico del greggio.
Era la fine di un lungo viaggio, eppure solo una tappa. La rotta ci avrebbe presto riportati indietro. Ma io sapevo di aver lasciato qualcosa in quell’oceano e di averne ricevuto in cambio molto di più: esperienza, consapevolezza, e un legame indelebile con l’anima del mare.
Lasciata alle spalle la costa americana, la Tidewater, ormai scarica del suo prezioso carico, fece rotta verso est. Il ritorno verso Mina Saud non era soltanto un cambio di rotta, ma un viaggio della memoria, una traiettoria che riavvolgeva i giorni e riportava i pensieri verso il punto d’origine.
I giorni scorrevano lenti sull’Atlantico. Il mare era largo e profondo, i turni di guardia scandivano il tempo, e il vento portava odori d’acqua e nostalgia. Ognuno di noi, chiuso nei propri pensieri o aperto al cielo stellato delle notti oceaniche, attendeva il passaggio che tutti riconoscono come confine tra mondi: Gibilterra.
La sera del 26 settembre 1958, alle ore 21:18, superammo Punta Europa, al traverso dello stretto di Gibilterra e, come previsto, annotai l’orario sul giornale di bordo, sempre per la prassi legata alla navigazione “fuori dagli stretti” mentre nella notte, si intravedevano le luci della costa spagnola e le sagome della rocca.
Quella linea di mare, stretta e vigilata, tra Europa e Africa, tra Atlantico e Mediterraneo, mi sembrava allora un varco quasi mitologico. Ricordo il silenzio della notte e lo scricchiolio regolare della nave, mentre l’orizzonte si restringeva e poi si apriva di nuovo sul nostro amato Mare Nostrum.
Nel Mediterraneo, il clima era più familiare, il cielo più vicino, le acque meno ostili. Era come tornare a casa pur senza sbarcare. Si parlava di porti conosciuti, di odori di terra, di lingue note e visi simili. Ma la rotta non si fermava.
Superammo il canale di Suez una seconda volta, questa volta con la nave alleggerita, e il passaggio fu meno teso ma sempre suggestivo. I laghi amari, le sponde sabbiose, i richiami dei bambini egiziani che ci salutavano dalle rive: tutto sembrava un déjà vu, eppure ogni passaggio era diverso dal precedente.
Di nuovo nel Mar Rosso, puntammo verso la penisola araba. Il caldo era tornato opprimente, l’atmosfera rarefatta. Ma ormai Mina Saud era vicina.
Il ciclo si chiudeva dove era cominciato, tra le fiaccole perenni del terminale petrolifero e il mare calmo della rada. La nave dopo aver portato il suo carico attraverso due oceani, era pronta a caricarsi di nuovo, e noi con lei.
Era la vita ciclica del navigante: partire, attraversare, ritornare. Ma ogni viaggio aggiungeva un peso all’anima e un tesoro alla memoria.
Dopo tre viaggi completi a bordo della Tidewater, la mia esperienza di navigazione si avvicinava alla conclusione. Ogni traversata aveva lasciato un segno indelebile: le rotte da La Spezia a Mina Saud, le soste a Port Said, l’attraversamento del Canale di Suez, il Mar Rosso, e infine l’arrivo a Delaware City via Capo di Buona Speranza. Ogni porto, ogni mare, ogni cielo aveva contribuito a formare il mio bagaglio di esperienze e ricordi.
Il 21 giugno 1959, la nave arrivò al porto di Palermo. La città, con il suo porto affacciato sul Mediterraneo, rappresentava per me non solo una meta geografica, ma anche simbolica: la fine di un percorso e l’inizio di una nuova fase della vita. Le immagini del porto, con le sue banchine affollate e le colline sullo sfondo, resteranno impresse nella mia memoria.?
Sbarcare a Palermo significava tornare a casa, riabbracciare gli affetti, condividere le storie e le avventure vissute in mare. Ma significava anche salutare la nave che era stata la mia casa per un anno, i compagni di viaggio, le albe e i tramonti vissuti insieme. Con il cuore colmo di gratitudine e un pizzico di nostalgia, lasciai la Tidewater, consapevole che quell’esperienza avrebbe segnato per sempre il mio cammino.?
Nicola Silenti
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