Dirty jobs. Navi sul viale del tramonto
di Tealdo Tealdi
di Tealdo Tealdi
La prima nave che nel febbraio 1983, approfittando dell’alta marea si “spiaggiò” ad Alang in India, fu la Kota Tenjong, trasformando quella che era una spiaggia intatta in uno dei luoghi più inquinati della terra, dove il suolo è ormai costituito essenzialmente da petrolio, rifiuti e materiali tossici.
Da allora migliaia di navi, di ogni genere e dimensione, sono approdati su questa costa, o a Chittagong in Bangladesh, o in altri paesi, come Pakistan e Cina. Le navi sono difatti un’importante fonte di materiali ferrosi e non ferrosi e possono essere riciclate per il 95%, risparmiando risorse naturali non rinnovabili, tant’è che l’80% dell’acciaio del Bangladesh proviene dalla seconda fusione proveniente dalla demolizione navale, ottenuto inoltre con un consumo energetico del 70% inferiore.
Foto GreenPeace©
L’età media è di circa 30 anni, con la tendenza a diminuire, per far posto a navi più profittevoli o a doppio scafo, come per le petroliere. Negli ultimi anni ne sono state smantellate circa 500 ogni anno, per un tonnellaggio medio annuale di 3milioni di ton, dopo dei picchi di 1200/1300 tra il 1995 e il 2000 impiegando direttamente, nel Bangladesh 300.000 persone e 250.000 in India.
Si stima che nei prossimi anni dovranno essere demolite annualmente 700 navi commerciali, senza considerare le militari, con un fatturato globale, molto redditizio, attorno ai € 1,2 miliardi. Queste cifre sono destinate ad aumentare grazie alla decisione internazionale di eliminare, completamente e in modo graduale, le petroliere monoscafo entro il 2015.
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Alcune arrivano alla demolizione con mezzi propri e pertanto non possono essere soggette a una preventiva bonifica dall’amianto, dei materiali tossici, dei carburanti e dei policlorobifenili; spesso sostano semi abbandonate in porti vicini stategicamente, in attesa che i prezzi salgano. Quelle che invece arrivano trainate potrebbero essere soggette a una decontaminazione, ma questo non avviene, col risultato che sono facilmente soggette a incendi ed esplosioni, con perdite di vite umane.
Si tratta quindi di mettere a punto delle linee guida di efficienza, sicurezza e compatibilità ambientale, che possano essere estese e applicate al contesto internazionale. I vari impianti del pianeta non possono però reggere il ritmo della domanda, aumentando il timore che i cantieri espongano i lavoratori a rischi per la salute e non prestino attenzione all'ambiente.
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Purtroppo l'Organizzazione Internazionale Marittima (Imo), l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) e la Convenzione di Basilea dell'Unep (Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente) hanno definito standard non vincolanti in materia di riciclaggio delle navi. Ai sensi della Convenzione, è bandita l'esportazione di ogni sorta di rifiuti pericolosi ai paesi Ocse, per prevenire il dumping ambientale a danno dei paesi in via di sviluppo e l'Ue vuole assumere una leadership, imprimendo un'accelerazione allo sviluppo di una strategia europea e internazionale.
Un’attività ad alto rischio
Non ci sono statistiche attendibili sull’incidentalità, in quanto quelle ufficiali sono parziali. Il Gujarat Maritime Board dell’India ha registrato 372 morti fra il 1983 e la metà del 2004, ma il loro numero è molto più alto; solo per Chittagong si possono ipotizzare 1.000 morti negli ultimi venti anni, oltre a un ferito al giorno.
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Durante una visita della Federazione Internazionale per i Diritti Umani- Fidh si scoprì che su 5 incidenti mortali che erano avvenuti nell’arco delle ultime due settimane, solo uno era stato inserito nelle statistiche. Non sono conteggiati i casi di coloro che si ammalano e muoiono, magari dopo anni, per cause collegate all’amianto e alle sostanze tossiche che maneggiano, senza alcuna precauzione.
Nonostante le promesse, non vi sono veri ospedali a Chittagong e i certificati di ispezione vengono rilasciati senza effettivamente farli. Non esiste un formale contratto di lavoro e pertanto vi è un clima di intimidazione, che fa sì che la giornata lavorativa sia anche di 14 ore; naturalmente straordinari e festività non sono pagati.
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Vivere e morire a Chittagong, nel Bangladesh
''Il mio nome è Taiboer Khan e sono un piccolo agricoltore che ha perso tutto in un’alluvione sei anni or sono, con il letto del fiume che ha mangiato la mia terra. Cosa potevo fare? Se rimanevo nel mio villaggio sarei morto di fame, con mia moglie Fulera e i miei quattro figli, tanto valeva che mi trasferissi a Chittagong, seguendo il consiglio del mio amico Nijui.''
''Ho lavorato nel cantiere di demolizione delle navi per cinque anni e riuscivo a mandare soldi a casa regolarmente e a farvi ritorno una volta all’anno. Purtroppo, nel dicembre 2003, una grossa lastra di ferro è caduta mentre la stavo caricando, schiacciandomi le gambe e il petto. L’ospedale locale, se così lo si può chiamare, mi ha curato superficialmente e convinto a tornare al mio villaggio.''
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''Non ho avuto nessun risarcimento per l’incidente e ho dovuto vendere la mia pompa dell’acqua per 1.000 takas (13€), in modo da poter andare in ospedale a Bogra, ma il dottore ne voleva di più per curarmi e così la cancrena mi ha ucciso dopo un anno. Il mio destino, come quello della maggior parte dei miei compagni, era d’altronde segnato. Avrei potuto morire di cancro, come il 25% di loro, con i polmoni che respirando l’aria del cantiere è come se fumassero 10/15 pacchetti di sigarette al giorno, oppure ammalarmi per l’amianto, che maneggiamo senza alcuna precauzione.''
''Comunque non avrei superato i 45 anni, età raggiunta solamente dall’1% di noi. D‘altra parte che cosa posso pretendere di più? Non ho istruzione, non ho seguito un corso preparativo, non ho scarpe di gomma, nè elmetto, vivo in baracche senza acqua, in condizioni igieniche precarie e sarei potuto morire di tubercolosi, lebbra, malaria, malnutrizione, Hiv-Aids o altre malattie trasmessibili sessualmente.''
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''E’ naturale che in queste condizioni, siano i poveri e i deboli le prime vittime. Non vi preoccupate però, morendo ho dato la possibilità, rischiosa, ma è sempre meglio di niente, a un’altra persona, fra le migliaia che aspettano, di prendere il mio posto. La mia famiglia ora non sa come vivere, una mia figlia è in età di matrimonio, ma è troppo povera per trovare un marito, i miei figli hanno un risciò e guadagnano 30, al massimo 40 takas al giorno (circa € 0,50). Purtroppo la situazione non cambierà in futuro, perche la voce dei poveri non va lontana.''
''Non cercate una mia foto, è come se non fossi esistito, le statistiche non mi includeranno, alla pari della maggior parte dei miei sfortunati compagni di lavoro, di cui ci si accorge solo quando provochiamo un’esplosione così forte, mentre togliamo petrolio e liquidi infiammabili dal ventre di una nave, da richiamare l’attenzione dei reporter del giornale locale, la vera e unica fonte per sapere che il numero dei morti veri è due/tre volte quello ufficiale. Ah, dimenticavo, il mio nome e la mia storia sono veri e invece che a Chittagong avrei potuto essere ad Alang, il mio destino non sarebbe cambiato.''
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Progetti a vuoto
Quasi sempre, quando si tratta di transatlantici famosi, i progetti per la loro salvezza si moltiplicano, in quanto rappresentano spesso dei simboli nazional-popolari, da salvare a tutti i costi, nonostante le difficoltà di far quadrare i conti. Purtroppo i risultati sono in genere negativi e ben lo dimostrano alcuni esempi, da quello dell’Hamburg, del France, dell’United States, il più veloce che abbia mai solcato i mari (40 nodi), arrivando a colpire persino un’icona mondiale: la Queen Elizabeth 2.
Varata nel 1967 e messa in servizio dopo due anni, ha navigato per 40 anni per la Cunard, facendo scalo a New York per 710 volte e trasportando almeno 2,5 milioni di passeggeri. Venduta per $100 milioni, è arrivata a Dubai il novembre scorso per essere integrata al complesso alberghiero Palm Jumeirah, ma la crisi attuale ha fatto fermare i lavori e i demolitori indiani hanno già cominciato a farsi avanti.
Shipbreaking visit Chittagong
Anche i due ultimi gioielli della marina italiana, la Michelangelo e la Raffaello subirono una fine ingloriosa in quanto, dopo il varo nel 1962, furono vendute nel 1976 allo Scià di Persia per essere adibite a caserma galleggiante. La Raffello fu bombardata dall'aviazione irachena durante la guerra Iran-Iraq, il 17 novembre1983, quando era alla fonda nel porto di Bushire, dove giace tutt'ora semiaffondata; il suo relitto è ora in vendita a $6.200.000. La Michelangelo fu invece smantellata in Pakistan nel 1991.
L’orgoglio della Francia
Era stato varato nel 1960 a Saint-Nazaire e i francesi, così sicuri delle sue prestazioni -31 nodi di velocità massima- e della sua bellezza, l’avevano chiamato France, facendone un messaggero del loro Paese. Anche per lui, nonostante un curriculum che avrebbe potuto essere la sua ancora di salvezza, le spiagge di Alang sono state il suo ultimo viaggio.
Nez du France
Venduto nel 1979 e ribattezzato, prima Norway e successivamente Blue Lady, i tentativi di salvataggio da parte di numerose associazioni francesi non sono state sufficienti a salvarlo da un destino poco glorioso. Una sola parte sopravviverà: il “naso”, la punta estrema della prua che, al termine di una battaglia memorabile, è tornata, e non poteva essere altrimenti, in territorio francese.
Dopo la vendita di 500 oggetti più disparati, provenienti dall’ex piroscafo, l’8 febbraio scorso, presso la casa d’asta Artcurial di Parigi, Jean Pierre Véron, presidente del gruppo immobiliare Norev, l’ha acquistato per € 273.000, avendo come sfidante Didier Spade, nipote dell’architetto Baptistin Spade, che aveva decorato il France. Con un gesto da veri gentiluomini, degni di altri tempi, Jean Pierre Véron l’ha prestato per diversi mesi a Didier Spade, che l’ha posizionato a Parigi al Port de La Grenelle, presso il Paris Yacht Marina, in modo che tutti potessero ammirarlo.
Shipbreaking visit Chittagong Robert Evans
L’impegno dell’Europa
Il parlamentare inglese del Parlamento Europeo Robert Evans si è recato nel Bangladesh nel febbraio dell’anno scorso, facendosi promotore di un’azione per cercare di cambiare quello che, agli occhi di un visitatore, raffigura un’immagine da settimo girone dell’Inferno.
“Non è accettabile che navi europee, sulle quali si mente sull’effettiva provenienza, siano distrutte in questo modo; la Commissione Trasporti crede che la Ue debba diventare la capofila di un’azione globale, con il chiaro intento di far terminare il modo attuale di come queste navi sono smantellate, trasformandolo in modo da non togliere i mezzi di sostentamento a coloro che ci lavorano. Tutti coloro che sono coinvolti nel processo devono assumersi le loro responsabilità; allo stesso tempo dobbiamo aiutare lo sviluppo di un’industria europea competitiva, che sia la più sicura possibile, anche dal punto di vista della salvaguardia ambientale”.
Shipbreaking visit Chittagong
Qualcosa si muove o è troppo bello per essere vero?
La richiesta di un modo diverso di lavorare, regolamentando un mercato selvaggio, ha permesso di far approvare nell’ottobre 2008 il testo finale della Convention on Safe and Environmentally Sound Recycling of Ships, che permetterà di facilitarne il riciclo in sicurezza e sempre compatibilmente con l’ambiente, sposando per la massima parte le tesi di chi, come Greenpeace, si è sempre opposto a questo modo di procedere. Quando l'armatore deciderà di demolire la nave, sarà obbligato a scegliere impianti che dovranno rispettare questa convenzione. L’entrata in vigore della nuova normativa dovrebbe essere nel 2013 e si prevedono circa almeno 50.000 navi a livello mondiale che potrebbero rientrare in detto regolamento.
Passo successivo è stato quello del 18 marzo 2009, con il quale l’Alta Corte di Giustizia del Bangladesh ha ordinato la chiusura, entro due settimane, di tutti i siti di demolizione inquinanti, decisione a cui i 36 cantieri locali si sono appellati. Il risultato è incerto, in quanto è già la seconda volta che questo avviene e ben poco è cambiato.
Foto GreenPeace©
Quello che è sicuro che la situazione non può rimanere la stessa e sicuramente è destinata a cambiare nel prossimo futuro, come ha detto Rizwana Hassan dell’associazione che ha promosso l’iniziativa: “C’è la possibilità di lavorare senza inquinare in questo modo, rispettando la vita umana”. Naturalmente l’attenzione non deve limitarsi al solo Bangladesh, perché questo darebbe la possibilità ad altri paesi, Cina, India o Pakistan, di impadronirsi tout court della sua quota di mercato.
L’evoluzione nel sub-continente indiano dovrebbe aumentare le possibilità per l’Europa, tant’è che Philippe Fourrier, delegato generale della Federazione Industria Nautica Francese aveva dichiarato, giusto un anno fa: “In Francia abbiamo diverse aziende che stanno conservando dei siti di demolizione per grandi navi, che potrebbero essere operativi nei prossimi anni”. Ma non solo Francia ma anche in Gran Bretagna, come dimostra l’esempio della Clemenceau che sarà smantellata, rispettando regole impossibili da seguire nei cantieri asiatici.
La portaerei Clemenceau insieme a 4 navi americane e tre inglesi
La portaerei francese Clemenceau è l’unico caso di nave che abbia subìto un’identificazione dei prodotti inquinanti, effettuata da Bureau Veritas, essenzialmente merito dell’attività di Greenpeace e degli ecologisti, che si sono opposti, anche con azioni mediatiche innovative, al trasporto della nave in India, in quanto viaggiava in violazione della Convenzione di Basilea, che vietal'esportazione di rifiuti tossici verso i Paesi in via di sviluppo.
Varata nel 1957, con una stazza di 32.780 ton, lunga 255 metri e larga 51,2 la nave, in disarmo da 12 anni, è arrivata, dopo un errare nei mari, al cantiere Able di Hartlepool in Gran Bretagna, dotato del bacino di carenaggio più grande al mondo.
La sua demolizione terrà occupate 200 persone per un anno di lavoro, in quello che è il più grande progetto mai fatto in Europa: più del 94% sarà o riciclato o recuperato per la vendita.Merito anche del governo francese, come ha detto Peter Stephenson, Ceo del cantiere,” che ha capito l’importanza di assicurare un riciclo dove il lavoro può essere fatto in sicurezza, rispettando condizioni ambientali, senza abbandonare le navi sulle spiagge di paesi in via di sviluppo”.
Il 95,6 % della capacità di riciclo è concentrata in quattro paesi:
India Cina Bangladesh Pakistan |
32,9% 27% 24,2% 11,5%
|
Tealdo Tealdi
Crediti
Foto Chittagong Greenpeace
Foto Alang Christoph Engel/Greenpeace
Foto in copertina la famosa nave Queen Elisabeth 2 - Courtesy Cunard
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